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SHAME: Songs of Praise

Di: Stefano Santoni | 11/04/2018


Queen’s Head Pub, Brixton, sud di Londra. In questo locale, primo quartier generale dei Fat White Family, il cantante Charlie Steen insieme ai suoi quattro compagni di avventura hanno dato vita al progetto Shame. La band fa dunque parte di questa nuova scena molto interessante nata nel sud della capitale britannica, insieme ad altre realtà come Goat Girl e Dead Pretties. Nel corso dell'ultimo anno, queste formazioni sono riuscite tutte ad ottenere un contratto discografico, creando qualcosa di nuovo per la scena musicale britannica: un nutrito gruppo di musicisti giovani concentrati sulla creazione di un personale suono guitar-oriented.

Il padre del batterista Charlie Forbes era molto amico del proprietario del pub di Brixton, il quale aveva volentieri lasciato ai ragazzi una stanza proprio sopra al locale dove poter andare a suonare subito dopo la scuola. I cinque giovanissimi hanno subito respirato l'aria estremamente creativa di quell'ambiente senza cadere negli eccessi dei Fat Whites. La chiave di volta è stata trovare quasi subito una giusta via di mezzo tra l'approccio post-punk alla The Fall ed il loro personale e spiccato senso per la melodia e per i ritornelli anthemici. Per quasi un anno e mezzo la band prova, riceve consigli da musicisti più "scafati" ed esperti, perfeziona il proprio approccio personale e riesce a pubblicare il primo singolo "The Lick / Gold Hole" nel dicembre del 2016.

Nel frattempo sono costretti a cambiare aria quando il Queen’s Head Pub viene convertito in un gastropub, ma ormai la loro strada era avviata. Dopo altri due singoli usciti nel 2017 ("Tasteless/Visa Vulture" e "Concrete"), gli Shame firmano per un'ottima etichetta come la Dead Oceans, che non solo ha un'ottima distribuzione e un roster di grande qualità, ma riesce a garantire loro il maggior controllo possibile sulla produzione.

Ad inizio 2018 ecco uscire l'atteso debutto sulla lunga distanza. Songs Of Praise non delude affatto le enormi aspettative cercando subito di colpire con le atmosfere scure e l'incedere vocale di "Dust On Trial", una delle ultime canzoni ad essere state scritte in ordine cronologico. Tanto per fare paragoni e toglierci subito il sassolino dalla scarpa, pur essendo fortemente critici nei confronti della società attuale e della situazione politica britannica ("Visa Vulture", unico brano a non apparire nell'album era un aperto attacco al primo ministro Theresa May), non possiedono la feroce aggressione verbale di Idles o Sleaford Mods, ne l'anarchia sghemba e "malata" dei Fat Whites, ma il loro approccio di insofferente strafottenza rende il risultato finale estremamente godibile. I ragazzi (tutti e 5 tra i 20 e i 21 anni) sanno come centrare l'obiettivo, sia nel call & response del "vecchio" singolo "Concrete" sia, soprattutto, nell'indie-pop-rock trascinante ed irresistibile del nuovo singolo "One Rizla".

Con la successiva "The Lick", (si, proprio il loro primo singolo) si spingono ancora più in la. Il vocalist Charlie Steen è perfettamente a suo agio nella bipolarità spokenword/urlaliberatoriepostpunk, ed il brano risulta, nella sua nuova e definitiva versione, perfetto ed equilibrato. Quando l'assalto si fa più sfrontato, abrasivo e rumoroso ("Donk" e "Lampoon") il gruppo sembra perdere colpi e lucidità, soprattutto rispetto a conterranei come i più maturi Idles, ma quando fanno prevalere le loro urgenti melodie e la capacità di far esplodere riffs e ritornelli ("Tasteless", "Gold Hole", "Friction") riescono ad essere assolutamente irresistibili. Anche i testi, pur non essendo crudi nell'assalto sociale, sono estremamente interessanti, come quando, proprio in "The Lick", contestano l'attuale fruizione musicale da parte dei loro coetanei:

"So why don't you sit in the corner of your room. Sit in the corner of your room and download the next greatest track to your MP3 device. So sincerely recommended to you by the New Musical Express. You can pick it up. Plug it in. And have it ready for free-roaming material before you know it. Then you can stroll on round to your friend’s house and play it loud and proud. As you sit around in a circle and skip one minute and thirty seconds into the chorus. So we can all sing along and gaze and marvel at the four chord future.Cause that's what we want. That's what we need. Something we can touch, something we can feel, something that's relatable not debatable".

Per poi concludere con un amaro: "I don't want to be heard if you're the only one listening. Bathe me in blood and call it a christening". Per non parlare del j'accuse rivolto al narcisismo di alcuni protagonisti del rock business in "Gold Hole", e la frustrazione derivante dalla monotonia del quotidiano ritratta perfettamente in "Tasteless".

Certo, le vitali esplosioni delle chitarre di Sean Coyle-Smith and Eddie Green, il basso pulsante e robusto di Josh Finerty, e la gestualità convinta e convincente (anche nella sua esuberanza teatrale) di Charlie Steen rientrano nel novero del "già sentito", ma non si può negar loro un acerbo ma cristallino talento. Tutto sommato riescono a strappare perfino un sorriso mentre posano spocchiosi per la copertina del disco ammiccando ai Beach Boys del capolavoro Pet Sounds.

La conclusiva e malinconica "Angie" non si vergogna di mostrare il loro lato quasi romanticamente britpop nelle liriche e nelle soluzioni armoniche, e lascia un ampio ventaglio di ipotesi sul percorso da intraprendere. La mia speranza è che Steen e compagni possano mantenere non solo la loro genuina strafottenza stradaiola, ma soprattutto l'attitudine a sfornare con facilità dirompenti e memorabili ritornelli. È li che la band del sud di Londra riesce a fare davvero la differenza. (7)

"My nails ain't manicured

My voice ain't the best you've heard

And you can choose to hate my words

But do I give a fuck?"


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