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Carrie & Lowell

Di: Stefano Santoni | 05/05/2015
Esattamente dieci anni fa arrivò alle mie orecchie un album inciso da un bizzarro songwriter di Detroit chiamato Sufjan Stevens che invitava in maniera bislacca tra gangster e supereroi a sentire l'atmosfera dello stato dell'Illinois. Si trattava di uno splendido quanto sfaccettato affresco sonoro che mescolava pop orchestrale a country e folk, il tutto con un gusto teatrale ed un'ispirazione sempre messa perfettamente a fuoco. Solo successivamente ho scoperto che quello era il secondo album dedicato ad uno stato americano, il primo (naturalmente dedicato al suo Michigan) era uscito appena due anni prima. Ho iniziato ad interessarmi alla figura di questo stravagante songwriter, distante dal classico cliche del folksinger, ma personaggio estremamente istrionico e talentuoso che amava declinare il suo pop bizzarro in molte forme. Dopo il successo di Illinois mi è però sembrato agire come un calciatore che sa di avere un enorme talento ma si preoccupa più di fare colpi ad effetto e numeri da circo piuttosto che far girare un'intera squadra come potrebbe. Nemmeno l'incensato The Age Of Adz era riuscito a convincermi più di tanto e mi ero ormai convinto di aver sopravvalutato il suo talento e che lo stesso Stevens fosse una boutade come il suo progetto di inizio carriera che prevedeva la realizzazione di 50 album, uno per ogni stato americano.

Poi arriva inaspettato Carrie & Lowell, una copertina con una foto rovinata dal tempo, due nomi che campeggiano, riferiti sicuramente alla coppia della foto, non due personaggi immaginari, bensì persone vere, reali. Lowell è Lowell Brams, partigno di Stevens e co-fondatore con lo stesso figliastro dell'etichetta indipendente Asthmatic Kitty. Lei è Carrie, madre dello stesso Stevens, che ha abbandonato il figlio quando era ancora un bimbo e che soffriva di disturbi bipolari e faceva abuso di droghe. Un destino crudele ha portato via Carrie proprio quando le ferite di quel distacco si stavano finalmente cicatrizzando, e questo dolore ha portato il songwriter ad abbandonare le sue precedenti trovate, spesso fin troppo elaborate, rifugiandosi in una visione che mai è stata così scarna, dolente, sussurrata e confidenziale, e allo stesso tempo mai così completa e matura. Una confessione, 11 fotografie registrate a bassa fedeltà in un afflato di ricordi, rimorsi, pentimenti e gioie. 11 canzoni che abbandonano completamente gli arrangiamenti fastosi del passato per emergere in tutta la loro semplice nudità

"Spirit Of My Silence I Can Hear You. But I'm Afraid To Be Near You. And I Don't Know Where To Begin"

Così recita l'iniziale Death With Dignity, e non ci può essere nulla di peggio per un artista come lui, che ammettere l'incapacità di trovare le parole giuste. Questo disco non è un progetto artistico, questo disco è vita: la sua vita. La bellezza di Should Have Known Better è qualcosa di difficilmente descrivibile a parole, la fragilità degli arpeggi mentre racconta di esser stato lasciato in un negozio di videocassette, di sentirsi leggero come una piuma e luminoso come la brezza dell'Oregon, e mentre la chitarra si dissolve in un vapore di tastiere ecco che a metà traccia il dolore si trasforma da rabbiosa rassegnazione a serena accettazione:

"I Should Have Known Better. Nothing Can Be Changed.. The Past Is Still The Past. The Bridge To Nowhere. I Should've Wrote A Letter. Explaining What I Feel, That Empty Feeling"

Il finale lascia aperta una speranza, la vita, una nuova vita, che squarcia un cielo pieno di nuvole, la nascita della piccola nipote:

"My Brother Had A Daughter. The Beauty That She Brings, Illumination"


Un tappeto etereo di tastiere arriva a suggellare il tutto. Ci sono anche momenti in cui non tutto sembra oliato alla perfezione, e ci mancherebbe, come nella troppo ripetitiva The Only Thing, ma sono minimi dettagli che non vanno ad intaccare un disco emozionale e consapevole: dalla commovente bellezza dell'ultimo dialogo in un letto di ospedale di Fourth Of July, all'incedere maestoso e struggente di una Blue Bucket Of Gold che chiude il cerchio come meglio non si potrebbe. Un disco solitario ed intimo, colmo allo stesso tempo di fede e di scetticismo fino alla resurrezione della fiducia e dei sogni. Mettendo la puntina sui solchi di Carrie & Lowell si rimane inevitabilmente incastrati tra le pieghe dei ricordi, sfogliando vecchi album di foto sbiadite, facendo cadere portaceneri sul pavimento, aggirandosi sperduti in un negozio di videocassette, tentando di scrivere lettere che nessuno leggerà, volteggiando come piume nel cielo dell'Oregon, perdendo e ritrovando fede e speranza. Sufjan Stevens mettendosi a nudo riesce a coinvolgere completamente raccontando la sua vita, pizzicando le corde della sua chitarra e del suo cuore e facendosi aiutare solo da una manciata di collaboratori, tra cui spicca il nome di Laura Veirs. Bentornato.

- Stefano Santoni

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