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General Dome

Di: Stefano Santoni | 03/05/2013
C’era una volta (iniziano così quasi tutte le fiabe, almeno ai miei tempi) una ragazza ed un ragazzo, i loro nomi: Arone Dyer e Aron Sanchez. I due iniziarono presto a suonare in alcune band post punk a Brooklyn dove vivevano, ma ad un certo punto sentirono il bisogno di allargare i loro orizzonti. Nel 2007 decisero quindi di formare una band tutta loro ma avevano una brutta gatta da pelare: pur essendo solo due, volevano suonare in modo totalmente nuovo e come un intera band e, non bastasse, Arone (la fanciulla) aveva un problema cronico al tunnel carpale. Il loro dilemma sembrava di difficile risoluzione ma i due non si persero d'animo e si misero a costruire da soli i loro strumenti. E così da questa curiosa catena di montaggio a gestione familiare uscì fuori prima un ukulele baritono a sei corde collegato ad alcuni distorsori autocostruiti (il BUKE, suonato da Arone), poi un curioso ibrido tra chitarra e basso assemblato mettendo insieme alcuni pezzi di una Volvo degli anni ’60 e dei tubi idraulici (il GASS, suonato da Aron). Va da se che anche il nome della nuova band era bello e pronto: Buke And Gass!!! Con questo nome pubblicarono prima un CD autoprodotto intitolato “+/-“ riproposto quasi interamente nel successivo “Riposte”, loro primo disco ufficiale uscito per la Brassland (l’etichetta dei fratelli Dessner dei National), che vedeva anche la collaborazione, tra gli altri, di un musicista del calibro di Colin Stetson al sax. “Riposte” amplificava il loro sound con l’uso di un tamburo a pedale che rendeva il tutto molto più “rock”. Il loro era un indie rock obliquo, mutuato dal punk, ma che non disdegnava affatto allusioni jazz come dimostra la collaborazione con Stetson. Tra i loro padri tutelari, sicuramente gli Swell Maps, ma l’orecchio è spesso rivolto verso i Dirty Projectors, con cui condividono l’afflato folk-indie-pop di avanguardia e obliquo. Con l’EP “Function Falls” i nostri cambiano ragione sociale in Buke And Gase, nome con cui incidono anche il nuovissimo “General Dome”. Ed è una sorta di strana coincidenza pensare che un altro gruppo che negli ultimi anni ha dimostrato di saper creare qualcosa di davvero nuovo nel campo indie-pop-obliquo è quello formato da un’altra coppia, quei Wildbirds & Peacedrums che mi hanno saputo entusiasmare da subito, come sanno bene i miei (pochi) fedeli seguaci di podcast... I Buke e Gase mostrano in questo nuovo lavoro un vago senso di disagio. Come se qualcuno, da qualche parte possa essere sempre lì a spiare. Basta fare una ricerca immagini su Google digitando 'General Dome': ​​vi imbatterete in una serie di immagini che infondono idee di paranoia e di sorveglianza, come telecamere di sicurezza e razzi in fase di lancio. In tempi come questi, in cui i governi possono liberamente sorvegliare la cittadinanza ad ogni angolo e la nostra vita diventa sempre meno privata, le persone sono spesso attratte dalla creazione di codici. Date un'occhiata alla copertina dell'album. Il suo design minimalista potrebbe non significare alcunché e forse questo potrebbe essere il caso, se fosse la copertina di una band qualsiasi. Ma non è il caso dei Buke and Gase. Ispirati da una recente mostra di Sol LeWitt al museo Dia Beacon a Beacon (NY), Arone Dyer e Aron Sanchez hanno iniziato un loro personale processo di brainstorming su immagini codificate. Hanno deciso di costruire un sistema di immagini che, a mano a mano che procedevano con la creazione dell'artwork, li ha portati a creare un nuovo alfabeto con cui poter scrivere, in un modo non così diverso dal modo in cui creano la loro musica. Hanno costruito un alfabeto grafico all'interno della copertina dell'album, il cui codice sarà disponibile sul loro sito web una volta uscito nei negozi. Dopo aver approfondito la fase di ispirazione concettuale e di creazione dell'artwork torniamo all'ascolto di "General Dome". “Houdini Crush” apre l’album come meglio non si potrebbe: i loro strani strumenti suonano come chitarre acustiche dal volume incredibilmente gonfiato e pompato, le percussioni a piede dettano il ritmo, la Dyer mostra una notevole padronanza della voce come nell’incedere marziale della successiva “Hiccup”. In “In the Company of Fish” i due giocano a fare le Throwing Muses, mentre la title track inizia con uno sferragliamento di percussioni su cui i due si dilettano a suonare in maniera dissonante; appare chiaro che i loro virtuosismi, vista la particolarità degli strumenti, si evidenziano soprattutto negli arrangiamenti. Con “Hard Times” poi fanno affiorare chiaramente la loro natura folk, ed è un numero quasi pop e di sicura presa. Ormai i due sono assoluti padroni del campo e dopo un breve intermezzo vocale si dilettano a sfornare altri piccoli/grandi gioiellini come "Twisting the Lasso of Truth", "Split Like a Lip, No Blood on the Beard" e la trascinante "Cyclopean". Con "Contortion in Training" ecco ancora riaffiorare a galla gli Swell Maps mentre "My Best Andre Shot" sfoggia un trascinante riffone funkeggiante, anche il numero finale "Metazoa", tra rumorismi no wave ed una spiccata sensibilità indie, riesce a colpire perfettamente nel segno. Il suono del buke e del gase, come detto in precedenza, è molto particolare, a metà strada tra una chitarra super amplificata e dopata e una fanfara di fiati, all’inizio ha un effetto un po’ straniante ma come procedendo nell’ascolto ci si stupisce di esserci assuefatti e diventati quasi schiavi di questo volume gonfiato e della splendida voce di Arone Dyer. Insomma, se non l’avete ancora capito, si tratta di uno splendido disco dove i due mostrano una notevole capacità compositiva abbinata ad una brillantezza esecutiva che, se non ci fa gridare al miracolo, quantomeno ci dona una delle band più originali sentite negli ultimi tempi. E non è roba da poco.

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